SOCIETA' CAPITANI E MACCHINISTI NAVALI - CAMOGLI

Riviviamo l’eccidio dell’Olivetta

(La ricostruzione romanzata del tragico evento narrata dal socio John Gatti)

La notte del 2 dicembre 1944 sulla spiaggia di Portofino vennero trucidati 22 prigionieri politici. Ci sono esperienze nella vita che marchiano a fuoco. Ci sono esperienze capaci di entrare nella testa di un uomo, diventando la sua ossessione ed il suo incubo.
Vi voglio raccontare una storia che per me è diventata uno di questi tormenti continui, ma per farlo è necessario coinvolgervi... in qualche modo. Rivivrete uno spaccato di vita, uno di quei brevi intensi periodi che segnano l’animo come cicatrici sulla pelle. Ve lo racconterò come se lo stessi vivendo ora...



E’ la notte del 2 Dicembre 1944 e mi trovo seduto sulla poltrona del mio salotto. Godo del tepore diffuso dalla stufa, leggendo qualche pagina di un buon libro.
Fuori fa freddo e la dura giornata di lavoro appena trascorsa dovrebbe rilassarmi, ma non c’è verso. Devo continuamente tornare indietro sulle frasi appena lette, perchè gli occhi e la mente viaggiano su vagoni diversi, una ad inseguire le parole del libro e l’altra divaga nervosa, incapace di concentrarsi, di portare a compimento un pensiero. Premonizione? Chi può dirlo. Sta di fatto che questa notte sono agitato senza un apparente motivo.
Mi alzo per buttare un pezzo di legno sul fuoco. Dalla finestra tutto sembra tranquillo. Il cielo è stellato e le foglie degli alberi assolutamente immobili.
Sono preoccupato per mio fratello Bruno: questa è la verità. E’ partito da tre giorni. Ha dato fuoco ad un deposito di munizioni tedesco ed è stato costretto a mollare tutto e a fuggire, schiacciato sempre più dalla morsa implacabile dei cani fascisti che, fiutando le sue tracce, non mollano la pista.
La gente ormai vive nel terrore e se Bruno fosse rimasto sul Monte, qualcuno alla fine lo avrebbe certamente tradito.
Il bussare sommesso ma nervoso alla porta mi fa sobbalzare. Mi alzo di scatto e in un attimo raggiungo l’uscio.
Davanti alla porta trovo Giulio, un vecchio pescatore di Portofino. Lo sguardo fisso a terra. Con le mani appallottola nervosamente il berretto, spostando il peso del corpo da una gamba all’altra, dondolando il busto.
- Padre - mi dice - sta per succedere qualche cosa di terribile... -
- Di cosa stai parlando? - Domando preoccupato.
- Ci sono i tedeschi in paese che stanno chiedendo alla gente dei pezzi di rete e del filo di ferro. Hanno sequestrato il lancione di Giovanni. -
- E allora? -
- Tengono prigionieri una ventina di ragazzi. -
- Madre Santissima... Hai visto se c’è anche Bruno tra loro? -
- Credo di no Padre. Non ho riconosciuto nessuno di quei poveracci. -
- Aspetta un minuto, dammi il tempo di prendere una giacca. -

Il sentiero che da San Fruttuoso porta verso la punta del Monte, inizia con una ripida salita. Bastano dieci minuti per raggiungere il piano, ma sono sufficienti a spaccare le gambe e ad accorciare il respiro. Altri quaranta minuti di cammino veloce, in un terreno per lo più pianeggiante, permettono di arrivare a destinazione. La fretta e la paura ci fanno accelerare il passo, ma la precauzione di non accendere alcuna luce ci costringe a continui rallentamenti.
Arriviamo sopra la spiaggia dell’Olivetta senza scambiare una sola parola. L’ultimo tratto lo percorriamo nel silenzio più assoluto, con le orecchie tese a cogliere rumori sospetti.
Giulio sta davanti.
Più ci avviciniamo alla scalinata che porta alla spiaggia, più camminiamo curvi e lenti, cercando di fonderci con le ombre della notte. Ad un certo punto abbandoniamo il sentiero e sfruttando la copertura dei tronchi nodosi degli ulivi e quella dei pini marittimi, ci avviciniamo lentamente al dirupo che si affaccia sopra l’Olivetta.
Subito sento solo il rumore provocato dal vento, dai miei passi e l’ansimare controllato di Giulio, ma poco dopo un suono irregolare, altalenante comincia a fare da sottofondo al frusciare delle foglie: è il respiro del mare.
Continuiamo ad avanzare.
Ancora qualche minuto e si aggiungono rumori di passi sui ciottoli, di suoni metallici, di voci secche e minacciose... siamo arrivati sul ciglio del dirupo.
La spiaggetta, formata da sassi levigati dal mare, è poco più grande di un fazzoletto. Alcuni scogli partono dalle estremità della baia e si allungano ad imbuto verso il mare, continuando paralleli alla costa fino al borgo di Portofino da una parte, e verso il faro dall’altra.
Dalla nostra posizione si vedono distintamente le numerose figure che affollano la spiaggia. Contiamo ventidue partigiani inginocchiati.
Hanno le mani legate dietro la schiena.
Dall’altra parte una decina di tedeschi, armati di fucile e con la pistola alla cintura che discutono animatamente.
Alcuni di loro parlano in maniera strana, sembrano quasi ubriachi, mentre altri due fronteggiano il gruppo urlando ordini in tedesco.
Cerco freneticamente il volto di mio fratello tra quello dei prigionieri, e quando sono certo che non c’è, provo un improvviso senso di rilassamento, del quale però mi pento subito.
Quei ragazzi hanno quasi tutti una ventina d’anni e la situazione sembra disperata.
Scambio uno sguardo impotente con Giulio. Non so cosa fare. Ho paura e intanto il tempo passa.
E’ un attimo. Smetto di pensare, mi alzo ed inizio a correre verso il sentiero.
- Padre non faccia pazzie - mi sussurra più forte che può il vecchio contadino.
Mi fermo un istante e fissandolo negli occhi dico:
- Resta qui, non farti vedere ed imprimiti nella memoria tutto quello che succederà. -
Mi volto di nuovo e corro tanto veloce quanto me lo permettono il buio ed i ripidi gradini che portano alla spiaggetta.
- Non sparate, non sparate. Sono il prete di San Fruttuoso - grido prima che i soldati, pensando ad un assalto, comincino a reagire.
- Fermo! Non venire più avanti! - Mi ordina una voce con tono deciso.
Mi blocco con le mani alzate, trafitto da decine di sguardi, alcuni sospettosi, altri pieni di speranza.
- Buonasera Don... Carlini. Dico bene? - Saluta con voce canzonatoria e marcato accento tedesco un uomo in divisa mentre si avvicina per osservarmi meglio.
- Buonasera tenente Reimers - rispondo cercando di controllare il fiatone ed il tono della voce. - Le chiedo scusa per come sono arrivato, ma... -
- ... ma temeva di trovare suo fratello tra i nostri prigionieri. Dico bene? -
Resto in silenzio. Non c’è niente da dire. Ho di fronte l’uomo della Marina tedesca che si è insediato nel Castello di Portofino. Si dice che nella torre principale ha allestito delle celle, dove pare torturi ed uccida personalmente i prigionieri.
- Ha perso la lingua o la devo considerare una mancanza di rispetto nei miei confronti? -
- No, no. Non mi permetterei mai. Sono corso qui appena ho saputo che tenevate prigioniero un gruppo di ragazzi. -
- Ha fatto proprio bene a venire, chissà se riusciamo a trovare un accordo che possa soddisfare entrambi. -
- Farò tutto il possibile per... -
- Dov’è suo fratello? - M’interrompe bruscamente Reimers.
- Le giuro che non ne ho la più pallida idea. -
Gli occhi del tenente si riducono a due fessure. Lentamente estrae la pistola d’ordinanza dalla fondina che tiene alla cintura ed appoggia la bocca della canna in mezzo alla mia fronte.
- Non ho tempo da perdere, dov’è tuo fratello? - Domanda nuovamente usando un tono calmo che stride con la realtà dei pochi secondi che potrebbero separarmi dalla morte.
Sono paralizzato dalla paura, improvvisamente consapevole che la vita è legata ad un filo e che questo filo è nelle mani di un sadico pazzo senza scrupoli.
Sudo freddo.
Si volta di scatto ruotando di centottanta gradi e quando il dito preme il grilletto un’esplosione assordante mi gela il cervello, mi taglia il fiato, m’inchioda lo sguardo... lo inchioda sul foro nero che si apre sotto l’occhio di uno dei prigionieri accucciato poco lontano.
Ha i polsi legati dietro la schiena e sul volto un’espressione stupita, anch’essa inchiodata.
Il tempo si ferma per due secondi... due fotogrammi destinati ad affacciarsi più volte al giorno nella mia mente per il resto della vita.
Tutto sembra rallentato, quasi fermo, ed il mio disorientamento aumenta quando scopro che, nonostante l’enormità di quello che è successo, la terra ha continuato a girare ed il corpo senza vita è scivolato all’indietro, rallentato nella caduta dalle gambe, rimaste piegate nella posizione inginocchiata.
Sono io che continuo a rimanere inchiodato, incapace di spostare lo sguardo da quel foro nero.
Adesso un filo di sangue scuro attraversa la guancia del ragazzo, andando a perdersi tra i ciottoli della spiaggia.
Sento diverse persone urlare intorno a me. Raffiche di mitra, colpi di fucile. Poi più niente.
E’ una strage.
Appena supero il blocco del primo choc, mi rendo conto che tutti i prigionieri sono stati uccisi. Ragazzi massacrati da altri ragazzi. Hanno sparato per non essere ammazzati a loro volta da quel pazzo di Reimers e dai suoi fedeli scagnozzi.
Il calcio di un fucile mi raggiunge la bocca dello stomaco. Le gambe mi cedono all’istante. Mi ritrovo in ginocchio.
La mano sinistra del tenente stringe una ciocca dei miei capelli, costringendomi a tenere la testa alzata, mentre con la destra mi spinge a forza la canna di una pistola in bocca. Perdo tre denti ed il mirino mi taglia profondamente il palato.
Tra le lacrime che mi appannano gli occhi, vedo i soldati tedeschi che ammucchiano i ragazzi che hanno appena ucciso.
Mi asciugo con il dorso della mano e mi accorgo di una rete stesa sotto quel cumulo di corpi. Probabilmente è stata requisita a qualche pescatore di Portofino.
Adesso stanno legando braccia con gambe, membra con membra. Utilizzano pezzi di spago e filo di ferro ed in mezzo a schiene e teste incastrano diverse grosse pietre.
Infine chiudono la rete e la legano stretta, assicurandola con una grossa cima alla poppa del lancione.
A colpi di remi, nel mare calmo, la barca scivola prendendo il largo.
Appeso fuoribordo trascina il suo macabro carico.
Venti minuti dopo l’acqua scura inghiotte le povere vittime ma il buio della notte, pietosamente, nasconde la triste scena.

Da quando sono sceso all’Olivetta ho pensato di morire numerose volte, ed altrettante l’ho sperato.
Il dolore aumenta ad ogni colpo, smentendo ogni volta la convinzione di aver già raggiunto il massimo sopportabile.
Mi rompono il naso con una pietra raccolta tra i ciottoli della spiaggia.
Con lo stesso sasso mi spaccano le labbra e la maggior parte dei denti.
Finalmente, quando mi amputano l’indice della mano sinistra segandolo con un coltello, perdo i sensi.
Mi risveglio e perdo conoscenza numerose volte, divorato dalla febbre e dal delirio.
Delle giornate che seguono ho solo vaghi ricordi. Mi hanno raccontato che dopo essere stato torturato per farmi rivelare dove si nascondeva mio fratello, sono stato rinchiuso in una cella del castello. Ci sono rimasto per due giorni e due notti, ferito, praticamente moribondo.
Nel frattempo il buon Giulio era riuscito a far sapere alla Curia di Genova, utilizzando tortuosi passaparola, quanto era successo all’Olivetta. La reazione fu immediata ed il Comando Tedesco, pur di non guastare il precario ed importante equilibrio con la Chiesa, diede immediato ordine al tenente Reimers di rilasciare don Carlini.
Fu così che uscii dalla cella del castello di Portofino: qualche giorno ancora e sarei morto.
Mi trasportarono fino a casa sopra una barella improvvisata. L’assistenza e le cure dei miei parrocchiani bloccarono sul nascere un principio d’infezione nel punto dove mi era stato segato il dito.
Dopo circa una settimana anche la febbre si calmò, ed io lentamente resuscitai, lasciando quel mondo d’ombre, incubi e strane realtà, in cui ero sprofondato per diversi giorni.

John Gatti (dal libro "Amici nella risacca") - 3/2009