SOCIETA' CAPITANI E MACCHINISTI NAVALI - CAMOGLI

Una chiesa di mare: San Nicolò
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Siamo costantemente tentati dalle schiette pagine di Gio Bono Ferrari, realizzate nel 1930. Ecco una piccola gemma: la descrizione della chiesa romanica di San Nicolò, sita sulla pedonale che da San Rocco porta a Punta Chiappa. La schietta lettura appunto, invita ad una gita in quel luogo pittoresco a contemplare l'ambiente mediterraneo e le vicende storiche che lo videro protagonista nel tempo. Notevole la parte finale delle note di Ferrari: un vero e proprio elogio ai naviganti camogliesi che spesso visitavano la chiesa per ringraziare il Santo della protezione concessa nei loro pericolosi viaggi. Le seguenti righe sono tratte da "Camogli, la Città dei Mille Bianchi Velieri" di Gio Bono Ferrari, fondatore del Civico Museo Marinaro di Camogli - Nuova Editrice Genovese.

Come arrivare a San Nicolò: la via gialla è la carrozzabile, quella porpora, la pedonale /How to get to S.Nicolò: yellow path: roadway; purple path: walking way

Bella, piccola Chiesa forse un po' anteriore al Mille, dedicata a San Nicola di Bari. Fu Badia dei Canonici Regolari della Congregazione di San Rufo dal 1110 al 1440; poi fu eretta in Commenda. Il primo Abate secolare pare fosse un Lorenzo Fiesco dell'antico Casato della Marca di Lavagna. Sul finire del 1500 i Monaci di San Nicola a causa delle lotte intestine e delle furibonde fazioni che dilaniavano lo Stato Genovese, si videro costretti ad abbandonare la piccola Badia. Ritornati, dovettero abbandonarla causa le incursioni dei Saraceni i quali nel contempo che venivano ad approvvigionarsi di acqua al Mulino, saccheggiavano e rapinavano ogni cosa.

La storia di questa Chiesetta posta in un piccolo e rupestre ripiano del monte, è interessantissima.

Dal 1162 al 1172 la Badia è oggetto di litigio fra il Convento di San Rufo di Valenza di Spagna, il quale ne vantava la proprietà in merito di una bolla di Papa Adriano IV ed il Convento di Mortara, il quale ne vantava diritti quasi pari. E la lite deve essere stata importante assai se solamente nel 1172 un lodo di Cardinali metteva finalmente d'accordo i Priori delle due Comunità decidendo pro-bono pacis che i Frati di Mortara rinunzino alla lite, anche se credono di avere dei diritti su detta Chiesa, e che i Frati di San Rufo, i quali ne hanno al presente ii possesso, lo tengano senz'altro ma che il Priore di detta Chiesa di San Nicolò dia, quale diritto di censo, ogni anno nella Festa di San Nicola ai Frati di Mortara o al loro Deputato dieci soldi di Genova.

Questa piccola Abazia ha il vanto di avere contribuito a fondare la Chiesa di San Salvatore in Sarzano di Genova ancora oggi esistente. Infatti, un atto notarile del Gennaio 1141 riferisce che il priorato di San Nicolosio fece costruire la Chiesa di Sarzano, e che all'uopo i Consoli Giuscardo Guglielmo Malocello ed Oberto Grimaldo Della Torre ad onor di Dio ed Ansaldo, prete della Chiesa di San Nicolò di Capodimonte, hanno dato da parte del Comune di Genova, 14 tavole di terreno, in Sarzano per edificarvi una Chiesa.

Vista frontale della chiesa di San Nicolò/Front view of S.Nicolò church (photo by M.Malatesta)

L'autonomia di questo Priorato o Abbazia fu nuovamente impugnata dai battaglieri frati Spagnoli di San Rufo, perchè nel 1440 una bolla di Papa Eugenio IV la riconosceva nuovamente dipendente dal convento di Valenza. Altri antichi e sbiaditi cartolari raccontano che circa 25 abati Commendatari ne tennero il governo e il possesso, con qualche interruzione, dal 1476 al 1800 ossia fino all'epoca in cui le leggi di Napoleone I incamerarono i beni ecclesiastici di Liguria. Non più officiata, la bella Chiesetta deperì per molti anni. Dopo Waterloo e dopo ii Congresso di Vienna, grazie al nuovo Concordato con la Chiesa di Roma, la Commienda di San Nicolò passò in beneficio semplice ed ebbe così, di quando in quando, un Prete.

Correndo l'anno 1865 la cara chiesetta venne definitivamente chiusa al Culto perchè inclusa nella legge della soppressione dei beni ecclesiastici fatta dal Governo d'Italia. Anni ben grigi per quelle pietre levigate che sapevano tutta la poesia religiosa dei vecchi pescatori e tutta la cultura monastica dei primi cenobiti. Il tempio vide la sua navata riempita di materiale da pesca; vide le piccole stanze dei monaci occupati da bravi e umili pescatori; sentì il tonfo greve delle catene e degli ancorotti del leudi sul suo medioevale pavimento; vide i ganci di ferro squarciare la compattezza dei muri e sentì l'odore acre della salsedine sprigionantesi dalle reti da pesca messe all'asciutto al ritorno dai viaggi della Gorgona.

Patirono le care pietre, scolpite a una a una dagli umili scalpellini del Mille, tutte le offese: quelle del tempo e quelle degli uomini. Finalmente la Chiesa e poche fasce e pochi ruderi vennero messi all'incanto dal R. Demanio. Sorse allora un uomo che alle tradizioni della sua terra era attaccato e che doveva sentire anche, assieme alla pietà cristiana, il senso profondo del bello. Quest'Uomo che gli amanti delle cose belle e autiche ricorderanno sempre con rispetto, si chiamava ii Capitano Andrea Bozzo. Con sacrificio pecuniario comprò la Chiesa, le fasce ed i ruderi. E col buon cuore del vecchi lupi di mare camogliesi, brontoloni ma beneflci. costruì accanto alla Chiesina un caseggiato tutt'ora esistente per servire di alloggio ai pescatori abitanti nella Chiesa i quali, se sfrattati, sarebbero rimasti dei senza tetto.

Sempre a sue spese iniziò i restauri della Chiesa dandole si può dire i caratteri di una cappella gentilizia. Il 12 Luglio 1870 il suo interessamento ebbe finalmente successo e la Chiesa veniva nuovamente benedetta e riaperta al pubblico. I giovani nonni nati verso il 1880 ricordavano ancora la bella figura di prè Giacomo, il Moù, il buon cappellano, colui che l'abbellì e che per lunghi anni la curò con amore di figlio. E ben a ragione perchè don Giacomo era figlio del Capitano Cav. Andrea Bozzo, dell'uomo che aveva salvato, lo si deve scrivere, quel gioiello di architettura dalla totale rovina. Ora il buon Sacerdote riposa nella Cappella di sinistra. Solo un grande lastrone inciso. Accanto dorme il Padre, Cap. Andrea Bozzo; dalla parte opposta riposa la mite Donna che fu la Madre di Don Giacomo.

Il secondo custode, Sac. Lavarello morto nel 1932, uomo colto ed amante delle cose d'arte, si adoprò moltissimo per altri restauri; ripristinò il rosone centrale e il bel portone ad archetti ed abbellì di molto I'interno. Fece egli stesso degli intelligenti assaggi sugli antichi intonaci interni, mettendo alla luce un prezioso ed antichissimo graffito che riproduce la Madonna assisa sulla poppa di un barco di fattura primitiva. Si dovette pure al buon Sacerdote l'interessante rintraccio di antiche memorie riguardanti l'Abbazia di San Nicolò e le incursioni dei pirati.

Vista del campanile della chiesa/View of the bell tower (photo by M.Malatesta)

Oggi la Chiesetta si presenta linda ed elegante, vero gioiello di pietra scalpellata. Il suo stile, gotico-lombardo, è ingentilito maggiormente dalla bella rotondità dell'abside e dalIa vaga cornice assai ben conservata. La facciata, piccola e snella, ha una bella porta a colonnine arieggiante le vecchie chiese di Genova, specie quella di San Cosimo. Il campanile è tozzo; si nota subito che è stato più volte rimaneggiato dagli uomini, in pegglo. L'interno è formato a piccola Croce latina, a tre cappelle. A somiglianza di San Giovanni di Prè le sue pietre interne devono essere state tutte sagomate a scalpello; peccato che I'intonaco ne nasconda ancora parte della bellezza. L'altare centrale è bello, di quella semplice bellezza che è fatta di linea pura e di armonia. Ricchi i marmi. La Chiesina non ha altro.

Niente opere d'arte dei Primitivi; niente trittici, nemmeno qualche bel lavoro di quel buon pittore nostrano, di quel famoso Maestro Opizzino Pellerano da Camogli il quale verso il 1300 lavorava già egregiamente le sue Madonne e che è riconosciuto oggi da tutti i critici di arte come il Capo Scuola della pittura genovese e forse italiana. Ma questa mancanza di cose d'arte si spiega pensando al romanzo di armi e di lotte di questa antica Abbazia, agli assalti ed ai saccheggi dei Saraceni che venivano per l'acqua al mulino, alle fuste pirateggianti la Costa e alle ingiurie degli uomini d'arme dei Fregoso, degli Adorno e dei Fieschi, ora amici e ora nemici.

Ma con tutto questo la Chiesa, la piccola Chiesa posta proprio sotto il ferrigno ammasso della puddinga, sa dire agli uomini tante e tante cose. Tutte belle. Nella navata, quando il sole muore da Ponente, si vedono le pietre, le cornici e le lesene indorarsi e vivere come vivono al sole le belle pietre dorate della Cattedrale di Orvieto; si sentono, sotto la sua semplice volta, così silenziosa e austera, passare tutti i secoli della storia paesana e si respira ii profumo dei ricordi lontani, delle lotte contro gli infedeli e contro il mare, e si pensa alla pietà ed all'ardire dei nostri nonni e, profondamente, alla bontà sorridente e melanconica delle nostre vecchie nonne, guardiane solitarie e sante delle chiuse case camogliesi, aspettanti per anni ed anni il ritorno del capo famiglia navigante i mari del mondo.

L'originale muro della chiesa/The original wall of the church (photo by M.Malatesta)

Tutte le cose che i vecchi navarchi di Camogli hanno osato nei secoli, tutte le loro lotte, le loro conquiste, tutti i loro ardimenti, parlano da queste pietre consumate dal tempo. Pietre che hanno visto quasi per intero l'ascesa dell'era Cristiana, pietre che in un lontano millennio furono accarezzate dalla mano di monaci architetti e artisti; pietre che per secoli e secoli hanno respirato tutta la salsedine del nostro bel mare non mai domato, che videro i lupi di mare di Camogli partire con i loro barchi per la spedizione di Ceuta e per quella mandata dal Governo di Genova alla conquista delle Baleari occupate dagli infedeli.

In questa Chiesa si elevavano le semplici e rudi preghiere dei naviganti camogliesi che, dopo avere salutato San Prospero nella Chiesa Plebana venivano qui a domandare la protezione del vecchio Santo di Bari. Di quei Camogliesi che si trovarono presenti alla battaglia di Ponza con una galea comandata da Ludovico Figari da Camogli e che contribuirono a far prigionieri i due Re di Navarra e di Aragona; dei camogliesi che si trovarono presenti sulla squadra del Fregoso, mandata a liberare Bonifacio in Corsica; dei camogliesi che combatterono e, vincitori, firmarono di loro pugno la pace con i Pisani; di quei camogliesi che contribuirono a salvare Papa Innocenzo IV insidiato dalle truppe imperiali nel castello di Sutri; dei camogliesi che al comando di Francesco da Camogli combatterono, vinsero e portarono a Camogli una galera barbaresca; i camogliesi dai quali uscì il magnifico Orazio Schiaffino altero Ambasciatore di Genova alla Corte di Spagna; di quei camogliesi che fecero conoscere, fra i primi, l'azzurra bandiera di Sardegna in porti lontani e che dopo del Risorgimento, primi fra tutti, portarono con onore e dignità la bandiera italiana in porti ed in rade aperte, in luoghi lontanissimi, dal Giappone alle Hawaii, dove il tricolore italiano non aveva mai sventolato. Di quei camogliesi, alfine, delle cui ossa sono seminate tutte le rotte degli oceani e tutti i mari del mondo, morti tutti nell'adempimento del proprio dovere e con il nome di Camogli sulle labbra.=